Logli e Urbino

di Giorgio Nonni

Nel gioco quadrangolare di luci e ombre che si allungano dalle alture di Palazzo Bonaventura sino a quell’ampio spazio prospettico in cui ha trovato origine il modello rinascimentale, si consuma l’esistenza di Mario Logli, novello artifex che in quella Piazza, dedicata a Federico di Montefeltro, ha trascorso l’infanzia, formandosi nelle adiacenti aule ducali, assorbendone le atmosfere e costruendo quelle vedute trasognate di una Urbino celata tra le vallate e le forre indorate dal primo sole e da bianche e soffici nebbie, come di un mare irreale, da miracolo o da pittura protorinascimentale.

Sono queste le suggestioni che emanano dalle creazioni artistiche di un vero e proprio genius loci, un autentico interprete di una terra dalle grandi armonie e consonanze geografiche e spirituali – come scriveva Paolo Volponi –  perché di sicuro proprio in una di quelle mattine sopra descritte si era originato il disegno di Urbino, il progetto di una Città Ideale posta all’incrocio degli elementi intrinseci e razionali di un territorio, misurata e costruita nel rapporto perfetto tra spazio, edifici, materiali, funzioni, società e animata da una cultura unitaria, secondo i princìpi della scienza nuova, colti nell’aritmetica, nell’astronomia, nella geometria, nella fisica e nella pittura.

La genesi del legame che Logli contrae con la Urbino del mito affonda negli anni dell’adolescenza, se non addirittura in quel momento primigenio della formazione della sua anima, anche se viene prepotentemente alla luce e si sostanzia nel pieno della maturità artistica. Il rapporto del faber con la silente natura pierfrancescana, che avvolge l’imponente costruzione federiciana, è dunque frutto di una percezione istintiva e cogente.

In origine – soprattutto in quello snodo temporale che coincide con la fuga dalle radici – l’artista viene indotto alla ideazione di paesaggi di rigorosa levità ed alla edificazione di una città dello spessore di un sogno, immagini che raccontano un concetto di compostezza e di armonia, che rappresenta l’eredità di uno dei momenti più alti dello spirito umano.  

Ed è a Milano, a metà degli anni Cinquanta, che Logli viene a contatto con il tessuto vivo dell’arte contemporanea e con una realtà culturale in fermento. E, come a volte accade, una circostanza fortunata contribuì a fargli mutare  prospettiva. Fu un quadro di quegli anni a colpirlo in maniera quasi ossessiva: lo sentiva vicino alle sue corde, come se si fosse aperta una finestra su un mondo fantastico. Era il Castello dei Pirenei di René Magritte, un enorme sasso sospeso in un cielo di cristallo. Su quella pietra, Logli vide volare per la prima volta la “sua” Urbino surreale!

Ecco, si stava realizzando il profetico suggerimento che Pier Paolo Pasolini aveva rivolto a quel giovane artista che era partito da Urbino con i sogni nella valigia. Era il 1955 e Logli aveva disegnato la copertina di Ragazzi di vita, il capolavoro dello scrittore romano, che gli aveva suggerito, premuroso: “Fai in modo che questa città non ti cambi!”. Una esortazione, forse, a non recidere il vincolo con le radici. Lungi dall’essere risolto, il rapporto di Logli con Urbino diventa allora dialettico, si fa conflittuale: l’artista reclama attenzione per un luogo che sembra modificarsi in direzione di una imminente rovina, paradigma di un mondo che galleggia su un immenso vuoto, sospeso nella voragine degli Inferi, in una vertigine quasi profetica che pare inghiottire la storia stessa della nostra civiltà. E, come muti testimoni, assistono alla catastrofe dell’Universo gli Invasori, eredi di una vita avvelenata dai fitofarmaci e dai rifiuti ambientali di una civiltà che tutto consuma.

Negli anni, la lezione di Volponi si fa ancor più feconda, e Logli traduce in “altro” linguaggio le ansie, le utopie e le lucide analisi di uno dei più grandi intellettuali della nostra epoca, che nei suoi scritti aveva avuto occasione di esaltare anche quello spirito visionario che animava gli abitanti di quella privilegiata porzione della Terra di Marca.

Se è pur vero che l’esperienza metropolitana ne aveva affinato le doti artistiche, è qui, tra quei crinali appenninici punteggiati di torri e di ville gentilizie, tra erbosi declivi e ariosi pianori, al sommo di convalli pettinate a maggese, che si consuma il nóstos, il ritorno di Logli alla sua Itaca, un luogo ove si tramandano storie e leggende e si accumulano suoni, voci, colori, aromi e silenzi antichi, in un percorso dell’anima che costituisce un approdo obbligato per chi voglia conoscere una dimensione della civiltà dello spirito.

Ora, in quest’aria cristallina di primavera, in cui si stempera la tinta rosa dei mattoni che identificano uno spazio urbano continuo e unificato col paesaggio circostante, con le due torri alzate come insegne sul paesaggio, Logli ha idealmente scalato il colle della sua età primigenia – quel Poggio, antica residenza dei Conti di Montefeltro e punto di congiungimento ideale tra Città e Università – che accoglie una parte significativa della sua raffinata produzione pittorica.

Opere di un academic ambassador d’eccezione, che ben si adattano a una Sede che rappresenta un centro di vita efficiente e moderno, in cui la luce, la sobrietà e l’armonia compositiva rappresentano la sintesi di un riferimento culturale del passato, il disegno realizzativo del presente e l’idea di un futuro ancora da esplorare. Una vera architettura senza tempo!

Ed è in questo luogo simbolico che l’Università è riuscita a saldare il suo debito con la storia,  allestendo una Wunderkammer che non vuole rappresentare uno spazio di musealizzazione, ma un dialogo serrato con uno degli artisti più rappresentativi della nostra Terra, testimone di quel concetto di Bellezza che affiora nei grandi interpreti rinascimentali e che secondo Dostoevskij sarà in grado di salvare il mondo. Un luogo che coniuga la tradizione con il progredire,  sotto lo sguardo di un emblematico Papa Clemente XI, il cui busto è posto all’incrocio di due quinte teatrali che si distendono idealmente sin sulla Piazza delimitata dalle ali del Palazzo e dalle linee neoclassiche della Cattedrale.

Si potenzia così quel dialogo sommesso – e mai antagonista – tra tessuto urbano edificato, che aderisce alle pieghe della campagna, ed interni abitati dai paesaggi naturali di Logli che si fanno spazio pubblico e culturale, e che testimoniano come immutabili rimangano ancora oggi le chiare fiumane e i cieli schietti di Piero, che galleggiano su quelle plaghe accarezzate dagli insediamenti collinari che si intravedono in trasparenza. Perché qui, come scriveva Carlo Bo, l’anima si smarrisce  nella luce e naufraga nello spazio.