Vieni via con me

a cura di Mattia Giancarli

“[…] Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino

ventoso: ognuno manda da una balza

la sua cometa per il ciel turchino.

 

Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,

risale, prende il vento; ecco pian piano

tra un lungo dei fanciulli urlo s’inalza. […]”

Era il 1900 quando Giovanni Pascoli, allora trentacinquenne, pubblicava L’Aquilone: una tra le sue più celebri poesie in cui si condensano i ricordi della sua prima infanzia passata ad Urbino, dove si trovava a studiare presso i padri scolopi del collegio Raffaello. Un’immagine, quella degli aquiloni che si inseguono colorati fendendo, spinti dal vento, l’azzurro del cielo, che è cara agli urbinati e a chiunque abbia frequentato la città e che ispirò a Mario Logli tutto un filone artistico: quella delle Isole volanticosì belle, potenti e fantasiose da diventare, al pari della sua firma, un suo marchio di fabbrica. In questa serie, che segue le prime esperienze vicine alla pop-art e l’importante stagione degli Invasori della metà degli anni Settanta, Logli denuncia a gran voce la sua adesione alla poetica surrealista di Dalì e di Magritte, di cui soprattutto Le Château des Pyrénées (Il castello dei Pirenei, 1959, Gerusalemme, The Israel Museum) rappresenta un modello importantissimo.

Vieni via con me, tuttavia, non fa parte della primissima serie delle Isole volanti risalente al 1979-1980: è più recente e si colloca nella seconda decade degli anni Duemila, quando il maestro torna a ragionare sui soggetti che lo avevano reso famoso rielaborandoli all’insegna di significati nuovi ma che tornano ad essere impegnati. Urbino, che in questa composizione condivide il ruolo di protagonista insieme alla Rocca roveresca di Senigallia, non presenta più il colore tipico dei suoi mattoni, delle sue pietre e del suo cotto: smette di essere un panorama conosciuto per diventare candida e marmorea e assurgere così a ideale stesso di bellezza; diviene simulacro intonso di arte e cultura e, per non essere calpestata dalle bieche logiche del consumismo, prende il volo sradicandosi da una terra di catrami e petrolio che non sa più capirla, difenderla e curarla. Questa separazione dolorosa apre una piaga sanguinante a cui, però, è lo stesso Logli a prescrivere una cura, rappresentata nella fattispecie da quello spago che è al tempo stesso filo da sutura e cordicella di un aquilone al quale, tuttavia, si attacca una pallina da tennis, sport amato da Logli. Una metafora visiva che invita ad una profondissima riflessione: per ricostruire con l’arte un legame che diventi indissolubile occorre riscoprire la genuinità, la semplicità e la purezza dei bambini e aprirsi al mondo con quello stupore che rappresenta la vera scintilla della passione.

Mario Logli, Vieni via con me, tecnica mista, olio e acrilico su tela. Campione ritoccato a mano. Copia unica; 100×70 cm.
Vieni via con me - Mario Logli